“L’amore? E’ tabacco forte, ma nei duemilacinquecento anni trascorsi il suo aroma non è svanito.”
Così Patrick Suskind, scrittore e drammaturgo tedesco, vede quel sentimento intenso e totalizzante che muove la vita. Lo fa in modo provocatorio nel suo “Sull’amore, sulla morte” (edito da Longanesi), guardando Eros come fonte di massima felicità e come origine di stoltezza. Tanto che nel libro, si chiede: “Come può essere sentito e considerato la massima gioia qualcosa che istupidisce e potenzialmente imbarbarisce?
Alla fine l’amore è davvero solo una malattia e neppure la più bella, bensì la più spaventosa che esista? Oppure è un veleno, ed è la quantità a decidere se sarà benefico o devastante?” Nel cercare una soluzione, il creatore di Jean Baptiste Grenouille chiamerà a raccolta Platone, Socrate, Goethe, Wagner, Orfeo e Stendhal. Ma non riuscirà a sciogliere il dilemma.
La contraddizione sull’amore, che nelle ultime pagine del libro sarà associato alla morte, rimarrà Ma perché alla base di questo sentimento che, contrapposto all’odio determina il divenire (Empedocle), c’è proprio un’aporia, un non senso. A chiarirlo Remo Bodei, docente di Storia della Filosofia all’Università di Pisa, quando dice: “L’amore è desiderio che attrae e unisce gli esseri viventi e coscienti in vista di un reciproco bisogno di completamento. La sua natura è paradossale. Nell’amato infatti si cerca contemporaneamente l’identico e il differente, l’altro se stesso e l’individuo diverso da sé, la fusione senza residui e il rafforzamento della propria personalità. Se l’altro non mi somigliasse, se non potessi rispecchiarmi in lui e riconoscere nei suoi pensieri e sentimenti il riflesso dei miei, l’amore non sorgerebbe, ma non potrei amarlo neppure se mi somigliasse troppo, se fosse un mero duplicato, un’eco monotona e ripetitiva di me stesso”.
Anche per mantenere in piedi un rapporto amoroso serve un’oscillazione continua. Un entrare ed un uscire da sé. Perché dichiara Bodei: “L’amore é nello stesso tempo serenità e incertezza. E la serenità vince l’incertezza soltanto perché c’è questo rapporto di assicurazione che l’amore dà. Quindi noi abbiamo nell’amore periodi di incertezza e periodi di serenità”. Il filosofo ricorre a Stendhal, che in un romanzo Il rosso e il nero, racconta di come si possa restare sempre innamorati, ma con qualche sforzo. Se ci si avvicina troppo, si rischia di confonderci con l’essere amato. Allora si tende ad allontanarsi. Se si è troppo lontani ci si avvicina. “Bisogna trovare – scrive Stendhal – la distanza ottimale come un arco voltaico quando bisogna far scoppiare la scintilla”. L’amore implica quindi mobilità. L’amore è vaghezza. E per durare deve rimanere incessantemente in bilico su un pericoloso crinale.
Di qui la necessità di rinnovare gli stati di equilibrio. Per Bodei Eros costituisce una delle passioni più potenti e sconvolgenti. E’ gioia incostante, che ha bisogno di continue rassicurazioni, espansione di se stessi oltre i vincoli della mortificante quotidianità. Sensazione di crescita, arricchimento e liberazione dalla chiusura nel proprio io rattrappito. Insieme, però, se non adeguatamente ricambiato, rappresenta anche un tragico fattore di distruzione e autodistruzione. A questo sentimento si associano parole come flessibilità, tensione continua e anche disperazione.
Eh, già. Pensiamo al racconto che dell’amore fa il commediografo Aristofane, nel Simposio di Platone. Egliredazione dice che inizialmente gli esseri umani erano androgini, uomini e donne insieme, simili a una palla, e che poi Zeus li ha tagliati in due. Da quel momento le due metà si cercano. In modo incessante. Senza soluzione di continuità.Lo spiega Umberto Curi, docente di Storia della Filosofia all’Università di Padova, quando chiarisce: “L’amore, che è via verso la conoscenza, non può essere soltanto unione senza essere al tempo stesso separazione, appropriazione senza perdita, felicità senza dolore in un gioco ambivalente che segna tutta la vita umana”.
Eco e Narciso, Tristano e Isotta, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice lo dimostrano. L’amore è pharmakon, medicina e veleno. Innamorarsi, per il professore, non vuol dire perdere la testa, “ma esattamente il contrario: guadagnare la consapevolezza della nostra costitutiva imperfezione, del fatto cioè che siamo solo una parte’ e non un intero”. E che quindi siamo destinati ad una ricerca senza fine. Perciò inscindibili sono nell’amore felicità e dolore, amore in senso di tensione, ricerca, e separazione, dissolvimento, morte. Si pensi alla lingua francese che ha creato il concetto della petite mort come sinonimo dell’orgasmo.
E agli Inni alla notte di Novalis, i quali non sono altro che poesie voluttuose dedicate alla morte. Continuando a dimostrare la natura mobile dell’amore, si può citare Umberto Galimberti, che nel suo “Sulle cose dell’amore” (Feltrinelli) afferma: “L’amore implica una sorte di rottura di sé, perché l’altro lo attraversi”. Amore per il professore è l’espropriazione della soggettività, è l’essere trascinato del soggetto oltre la sua identità e il suo concedersi a questo trascinamento.
E in un’epoca come la nostra, dominata dalla tecnica, per diventare contraltare della ragione strumentale (per cui ogni cosa è funzione dell’altro, ndr), “l’amore deve essere un’incondizionata consegna di sé all’alterità. Allora davvero l’amore si pone come radicale sovvertimento della stabilità dell’ordine, dell’identità, della proprietà che sono regolati dalla legge del giorno, la quale nulla sa della passione per la notte che inabissa ogni stabilità e ogni identità diurna, perché possa farsi strada amore”.